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La Battaglia di Szent Gotthard-Mogersdorf, 1 agosto 1664 - parte 4a

L'esercito della Sublime Porta Ottomana

La guerra contro l’Austria era un’opzione che Istanbul considerava da molto tempo, tuttavia la decisione di impegnarsi a fondo nella lotta fu presa diversi anni dopo la spedizione punitiva in Transilvania, avvenuta nel 1659, che di fatto riaprì il contrasto con l’imperatore. In quegli anni la Porta si trovava impegnata contro Venezia, a Creta e nel resto del Levante, in un conflitto che stava consumando molta parte delle sue energie. Anche se le riforme introdotte dal visir Kemankes Kara Mustafa avevano restituito una solida base finanziaria, la situazione politica si manteneva  incerta e con essa anche l’economia tornò a declinare. Due partiti si erano fronteggiati nel tentativo di controllare lo stato: la fazione con a capo il gran visir, più orientata al mantenimento dell’equilibrio interno a scapito dei potenti soldati di professione,  i Giannizzeri, e quello rappresentato appunto dai militari, con a capo il governatore di Anatolia Djindji Hodja Hüseyn, il quale – guadagnato il favore della sultana madre – si preparava a prendere in mano le redini dell’impero. Dopo un iniziale predominio di quest’ultimo schieramento, che ottenne a sigillo del proprio successo l’eliminazione del gran visir nel gennaio del 1644, le disfatte subite nel Mediterraneo, le rivolte interne conseguenti alla crisi economica e la sempre maggiore invadenza dei militari avevano fatto precipitare l’impero nel caos. Nel 1656 l’ascesa al rango di gran visir dell’anziano Köprülü Mehmed parve ai più come l’ennesimo passo di un irreversibile declino; invece rappresentò la fine dei disordini. Ottenuti dalla corte i pieni poteri, sotto il nuovo gran visir ogni insubordinazione o dissenso furono repressi con inaudita violenza; l’impero degli Ottomani tornò a essere la minacciosa potenza del secolo passato e la sua politica mostrò nuovamente il suo aggressivo contegno. Il nuovo corso continuò anche dopo la morte dell’anziano ministro, essendo Köprülü Mehmed riuscito a far nominare come suo successore il figlio Ahmed. Ogni nuovo balzo espansivo dell’impero, se da un lato rappresentava un’utile valvola di sfogo per mitigare le turbolenze politiche e tenere occupati i militari, significava anche una notevole fonte di reddito per l’economia di uno Stato che basava il suo potere sulle conquiste territoriali.

Due illustrazioni dal Codex Vindobonensis, realizzato a Vienna negli ultimi anni del XVI secolo. A sinistra un gruppo di Çorbaci - i comandanti delle orta dei giannizzeri - e a destra tre cavalieri di un reparto di confinari del Serhaddkulu  Lo sfarzo ostentato dagli ottomani non trovava sempre corrispondenza in campagna, dove era sostituito da un abbigliamento meno appariscente e senza dubbio più pratico.

 

In quegli anni la Porta era il solo Stato europeo a mantenere in costante assetto di guerra un dispositivo militare di grandi proporzioni. Si è calcolato che fra il 1630 e il 1650 fossero presenti nei ranghi fra i 70.000 e gli  80.000 soldati professionisti. Pur tenendo conto che almeno un terzo era iscritto nei ruoli solo a titolo onorifico (lo stesso gran visir era normalmente membro del corpo dei giannizzeri), il rimanente costituiva comunque una delle maggiori entità militari dell’epoca. Questo corpo di truppe stabili - denominato Kapikulu - era amministrato autonomamente e poteva in tempi ragionevolmente brevi mobilitarsi per una campagna di guerra. Inoltre, riunite alle forze immediatamente disponibili, i comandanti ottomani potevano avvalersi di altre truppe raccolte attraverso l’allestimento dei contingenti dei governatori e degli altri distretti, dei corpi di confinari e pure dei contingenti forniti dai tributari e dagli altri stati soggetti al sultano.


L’inizio dell’età classica dell’Impero Ottomano viene convenzionalmente fatto coincidere con la conquista di Costantinopoli; più o meno nello stesso periodo ebbe luogo l’organizzazione definitiva dell’esercito, consolidata poi nei secoli a seguire. L’antica guardia del corpo dei sultani, composta dai suoi più valorosi soldati, formò il reparto dei Kapikulu ('suddito’ o letteralmente ‘schiavo’ della Porta) riunendo la fanteria dei giannizzeri (Yeni-ceri, cioè ‘nuovi soldati’) assieme al più antico dei corpi militari turchi, costituito dalla cavalleria di origine anatolica, ovvero i sipahy.. Questi reparti rappresentarono in pratica l’esercito permanente del sultano, amministrato con uffici appositi e mantenuto costantemente in assetto di guerra. Lo stesso reclutamento avveniva mediante una scrematura più selettiva: mentre i giannizzeri si rifornivano di reclute mediante l’arruolamento di giovani provenienti dalle province europee dell’impero, la cavalleria accoglieva preferibilmente giovani di origine turca, mantenendo anche in seguito questo carattere peculiare. Le dimensioni degli eserciti turchi apparvero sempre considerevoli al confronto con quelli dei loro avversari cristiani. Se già alla vigilia della guerra contro gli Asburgo il sultano poteva schierare un numero già considerevole di soldati professionisti, nel 1663 l’armata allestita per la guerra in Ungheria costituiva di fatto l’esercito più grande del mondo. Sarebbe però sbagliato credere alle immense cifre riportate dalle fonti contemporanee, in quanto – molto spesso – certe informazioni erano diffuse dagli stessi Ottomani per impressionare gli avversari. La lontananza del teatro di guerra e la necessità di rifornire le armate condizionava l’allestimento dei contingenti, tanto che – specie quando i conflitti duravano molti anni – il dispositivo oscillava da un anno all’altro anche di decine di migliaia di unità. Quando il gran visir Köprülü Mehmed ordinò l’invasione della Transilvania nel 1659, il contingente era quasi intermente formato da truppe provenienti dai pascialati di Buda, di Temesvar e della Bosnia, affiancati da ausiliari tatari. Complessivamente la forza raccolta ascendeva a 45.000/50.000 soldati, i quali si mantennero in campagna solo per un periodo limitato. Nel 1663 Istanbul raccolse un contingente più strutturato, composto anche da reparti del Kapikulu, la cui forza totale fu stimata a 120.000 uomini.

Alla metà del Seicento la cavalleria rappresentava una parte considerevole dell’esercito turco, raggiungendo quasi il 45% dell’intera forza combattente; una proporzione certamente superiore a quella che nel resto d’Europa era raggiunta dagli eserciti occidentali, nei quali totalizzava mediamente il 25-30%. Solo il fatto che in turco esistono ben cinque differenti termini per nominare il cavallo dimostra l’importanza di questo animale nella storia e nella cultura di quel popolo. La cavalleria turca si era guadagnata una notevole reputazione, sia per l’audacia delle sue azioni, sia per l’indiscutibile resistenza alla fatica e alle privazioni, acquisita nelle desolate e inospitali regioni interne dell’Asia. Numerose testimonianze, a metà fra mito e leggenda, ci tramandano come i cavalieri turchi fossero in grado di sopravvivere senza cibo per molti giorni, alimentandosi solo con il sangue del loro destriero, sorbito attraverso un piccolo taglio praticato alla base del collo dell’animale. Molta della storia più antica dei turchi ottomani si perde nel mito e nei leggendari racconti di battaglie ritroviamo un’immagine ricorrente: quella del cavaliere turco, che all’improvviso piomba sul campo di battaglia determinando la vittoria del proprio schieramento. Anche le maggiori vittorie dei sultani ottomani furono il risultato di campagne nelle quali la cavalleria ricoprì un ruolo di assoluta protagonista: basti pensare alla fulminea conquista dell’Egitto e della Siria nel 1517, nel corso della quale i sipahy ottomani dimostrarono la loro superiorità sull’altrettanto temibile cavalleria dei Mamelucchi. Lo stesso termine sipahy  (da cui deriva spaì, parola entrata in uso anche in italiano per i reparti a cavallo nelle colonie), alludeva esplicitamente al ruolo primario assunto dai cavalieri turchi in seno all’esercito, poiché per la sua più aderente traduzione significa appunto “soldato”. Da secoli i cavalieri turchi erano abituati a compiere veloci scorrerie all’interno del territorio nemico e azioni elusive che richiedevano una particolare tattica, con agguati improvvisi e fulminei assalti. Altrettanto abilmente la cavalleria era in grado di svolgere al massimo grado i compiti di ricognizione e di schermo dell’armata durante i suoi spostamenti.

Appartenere ai reparti della guardia del sultano era certamente un segno di grande prestigio nella società ottomana, e con gli anni anche molti di coloro che si erano distinti in incarichi non propriamente militari venivano gratificati con l’ammissione al Kapikulu. Verso la fine del 1600 un viaggiatore e scrittore francese prese nota dell’esistenza di cinque corpi di cavalleria del Serraglio, ognuno forte di 7.000 cavalieri, ma rilevò come le ‘paghe morte’ - ossia i membri onorari – fossero assai numerose. La componente principale della cavalleria del Kapikulu era quella dei sipahy ulùfely, distinti in due grandi ripartizioni o ali: i cavalieri dell’ala sinistra (ulùfely jessar) e quelli dell’ala destra (ulùfely jemin). La prima occupava il rango d’onore e nelle marce formava l’avanguardia delle colonne. Coi secoli altre suddivisioni furono create all’interno dell’ala sinistra, coincidenti spesso con incarichi speciali o particolari funzioni assunte nel complesso cerimoniale di corte ottomano. Ad esempio gli yedekçi addestravano i cavalli del sultano; ai buçukçu era riservata la distribuzione delle elemosine durante le processioni che partivano dalla residenza imperiale del Topkapy; infine ai cebeci si consegnavano i preziosi tugh, ovvero le insegne costituite dalle aste con le code di cavallo. L’ala destra degli ulùfely si divideva anch’essa in ripartizioni, originate da tradizioni storiche, come lo squadrone dei gureba, composto da cavalieri non turchi, che per meriti speciali erano stati ammessi nel prestigioso reparto. I sipahy ulùfely costituivano il corpo più antico dell’esercito, e la loro creazione era attribuita allo stesso fondatore della dinastia ottomana, il sultano Osman I (1299-1326). Tutti i maggiori ufficiali provenivano dalla famiglia imperiale o dagli ambienti vicini alla corte e fornivano la scorta a cavallo del sultano per tutte le imponenti cerimonie che si svolgevano a Istanbul e nelle altre residenze imperiali. Questi ufficiali occupavano una posizione di rilievo non soltanto nell’organigramma di corte, ma pure in seno all’esercito; il comandante in capo, lo sipahylar agasy, non solo godeva del prestigioso titolo di primo scudiero del sultano, ma aveva il comando supremo della cavalleria durante le campagne di guerra. Tatticamente questa cavalleria veniva ripartita in cinque corpi, composti da compagnie (bölükler) forti ciascuna di una ventina di cavalieri agli ordini di un bölükbasi. Complessivamente le due ali non erano formate dallo stesso numero di uomini, e nel corso del XVII secolo l’ala destra fu sempre numericamente superiore rispetto a quella sinistra. Accanto alla cavalleria d’élite il sultano in caso di guerra era in grado di schierare un altro contingente di soldati a cavallo forniti dalle province dell’Impero. Questi reparti erano raccolti attraverso il calcolo delle rendite delle province e la milizia così formata prendeva il nome di toprakly. Ogni distretto doveva allestire il proprio contingente, dal più grande fino al più piccolo, cioè fino ai timar, amministratori di piccoli territori, tenuti a presentarsi in assetto di guerra con un altro cavaliere al seguito. Si trattava molto spesso di una massa eterogenea di combattenti semi-professionisti, quindi di valore e preparazione diseguali e dall’armamento spesso sommario. Una volta terminata la campagna di guerra, si tornava frettolosamente alle proprie occupazioni e, tanto più un’operazione militare si era conclusa sfavorevolmente, altrettanto in fretta i contingenti tendevano a rientrare nei paesi di provenienza. Accanto ai sipahy del kapikulu e a quelli toprakly esisteva infine un terzo tipo di cavalleria, reclutata nelle regioni di confine per formare reparti adibiti alla sorveglianza, alla ricognizione e a tutte quelle piccole operazioni che spesso si spingevano fino nelle retrovie degli avversari. Tutta la milizia di confine prendeva il nome di serhadkulu, e al suo interno la cavalleria era rappresentata dagli incursori dely, dai reparti leggeri dei beslü e dei gönüllü.

Come nella cavalleria, anche le truppe appiedate accoglievano al loro interno  differenti specialità. Assieme ai famosi e temuti Giannizzeri – riuniti in orta di 100/ 500 uomini ciascuna –  nel kapikulu vi erano i cebeci, impiegati nella riparazione e fabbricazione delle armi da fuoco e al munizionamento, i cadetti acemi-oglani  e tutti gli artiglieri, conosciuti come topçu. Sempre come appartenenti ai reparti stabili troviamo anche i sakka, ovvero i portatori d’acqua. Complessivamente i giannizzeri formavano 196 orta e i cebeci altre 60, per una forza armata complessiva  stimabile a circa 30.000 fanti; altri 2.000 artiglieri completavano il dispositivo per le campagne di guerra. Anche questa fanteria poteva essere aumentata ricorrendo alla milizia del serhadkulu: gli azab ed eventualmente dalla leva in massa dei segmen. Il livello di preparazione di queste truppe era comprensibilmente diseguale, tuttavia - molto temuta e considerata di elite dallo stesso Montecuccoli - la fanteria albanese e quella bosniaca reggevano il confronto con i giannizzeri.

Anche per la campagna del 1664 i turchi allestirono un’armata di notevoli dimensioni. Molti mesi prima che le colonne, guidate dal gran visir Köprülü Ahmed, marciassero alla volta dell’Austria, un gran numero di informazioni sul dispositivo messo in piedi dal sultano si diffuse rapidamente in tutta l’Europa cristiana, naturalmente molto interessata a conoscere la forza e la consistenza dell’esercito nemico. Sebbene esagerassero notevolmente il reale numero dei combattenti, le relazioni ci forniscono un quadro sufficientemente dettagliato della composizione di un grande esercito ottomano alla metà del XVII secolo. Si apprese che sarebbero giunti in Austria oltre 30.000 cavalieri toprakly, dei quali più della metà dall’Egitto e dall’Asia. Fra essi Mesopotami, Assiri, Soriani, d’Anatolia e di Palestina,  con i loro costumi e armamenti caratteristici,  quindi Egiziani, Georgiani, di Caramania, Cappadocia e Cilicia. Lo sforzo organizzativo e logistico dell’operazione mise a dura prova l’impero, le cui principali vie di comunicazione furono percorse per mesi dai contingenti che si raccoglievano per la campagna militare. L’asse principale della marcia verso l’Austria correva lungo il Danubio e la via era nota come Strada Reale. La cavalleria e la fanteria proveniente dalle regioni più orientali, come l’Armenia, la Georgia e l’odierno Irak, fu imbarcata a Trabzon oppure proseguì verso i Dardanelli per varcare lo stretto a Çanakkale o a Usküdar. I contingenti delle province europee si concentrarono a Belgrado per attendere l’arrivo del resto dell’armata.
Un incontestabile primato dell’organizzazione militare ottomana, almeno fino agli ultimi anni del Seicento, consisteva nell’eccellente organizzazione logistica dei rifornimenti delle proprie armate. Mentre le operazioni degli eserciti avversari in Ungheria, in Moldavia o nel Peloponneso (e comunque quelle di qualsiasi esercito occidentale del periodo), erano drammaticamente condizionate dai rifornimenti, i Turchi, grazie anche al numeroso stuolo di funzionari, mantennero in grande efficienza la fitta rete dei magazzini per l'esercito. Per facilitare il compito delle retrovie, le operazioni militari iniziavano sempre a primavera inoltrata, cioè quando il foraggio e la frutta erano sufficientemente maturi per sfamare i cavalli e gli altri animali da tiro.
La spina dorsale della rete di rifornimenti proseguiva lungo la Strada Reale da Istanbul a Edirne per Belgrado e Buda, e da questa località si ramificava in tutte le direzioni. La direttrice principale seguiva il corso del Danubio e anche gli affluenti del grande fiume venivano sfruttati per il trasporto dei rifornimenti con grandi navi onerarie. In rapporto al soldato di un esercito occidentale, in quegli anni il trattamento in campagna di un giannizzero o di un sipahy era senza dubbio migliore, anche perché nessun comandante ottomano desiderava correre il rischio di scontentare i suoi turbolenti soldati professionisti.

Il sipahy qui raffigurato mostra le principali caratteristiche dell’equipaggiamento della cavalleria turca all’epoca delle grandi battaglie combattute in Ungheria. L’ampio turbante, qui abbellito da una fascia di seta, era in quella foggia comune tra le popolazioni più orientali dell’Impero Ottomano; talvolta lo si ritrova anche in Persia, paese che esercitò sempre una notevole influenza sul costume turco. I turbanti nelle forme più disparate (cilindrica, a vaso, a pan di zucchero, a tronco di cono e persino appuntiti) realizzati di soli strati di tessuti o di stoffe avvolte intorno a un copricapo, erano d’altra parte diffusi in ogni angolo del mondo mussulmano, per riparare la testa dal sole e dai colpi del nemico in battaglia, contribuendo ad aumentare l’imponenza della figura umana. I turbanti permettevano il riconoscimento della gerarchia e pure l’ostentazione di pregiati ornamenti, specialmente nei cerimoniali di corte. L’ampio kaftan di lana poteva essere indossato sopra una veste più leggera, una camicia di maglia di ferro oppure delle piastre metalliche; frequentemente le falde anteriori erano ripiegate e fermate sotto la fascia alla vita, per rendere più agevole montare e smontare di sella. I colori più comuni del kaftan erano il rosso, il giallo, l’azzurro e tutta la gamma dei verdi; frequenti anche tonalità inconsuete come il violetto e il rosa scuro. La sciabola qilidy, il pugnale e un paio di pistole da fonda costituivano l’armamento più comune della cavalleria, completato anche da una lancia e talvolta da un arco corto. Simbolo stesso del mondo ottomano, la sciabola era l’arma nobile per eccellenza: con superbe lame, quasi sempre curvate del migliore acciaio damasco per le classi più abbienti, o di metallo naturale per tutti gli altri, recava incisi calligrammi e medaglioni ornamentali – gli higab - dotati di significati talismanici. Altrettanto diffuso della sciabola, il pugnale kanjar (cangiarro) aveva una lama leggermente ricurva a un solo taglio, con un’impugnatura a forma di “I”; a lama diritta era invece il kindjal, ugualmente portato come il primo, infilato sotto la cintura. L’utilizzo della lancia si fece gradualmente più raro verso la fine del ‘600 e, benché nelle illustrazioni e nelle miniature coeve la cavalleria turca fosse spesso rappresentata con queste armi, sembra che il suo uso fosse dovuto quasi esclusivamente a ragioni estetiche e con lo scopo di fissare banderuole, pennoni e altre piccole insegne. 

Le dimensioni e le vistose colorazioni di molte di queste aste tradiscono in effetti il loro utilizzo decorativo e del resto, come da alcuni sottolineato, un reparto di cavalleria avvistato in lontananza con lance e insegne al vento, appare sempre più numeroso. Durante l’assedio di Vienna, per impressionare i difensori della città ed esaltare il proprio numero, i Turchi applicarono banderuole a tutte le armi d’asta della loro cavalleria; piccole insegne furono legate anche ai tetti dei carri e perfino alle corna dei buoi: in guerra non esistono limiti agli stratagemmi!
Come la lancia, anche arco e frecce divennero sempre più rare e furono gradualmente sostituiti da piccoli moschetti. In ogni caso, soprattutto nelle province asiatiche, l’arco continuò a godere del favore dei cavalieri turchi più a lungo che in Europa.
L’armamento difensivo principale, rappresentato dallo scudo kalkan, fu impiegato diffusamente da tutta la cavalleria e veniva costruito ancora da una base in legno di forma rotonda, con l’applicazione di numerosi cerchi in tessuto intrecciato, chiusi al centro da un umbone metallico. La superficie si prestava a essere decorata con iscrizioni e inserti di vari materiali e tessuti variopinti. L’avambraccio poteva essere protetto da un bracciale kulluk dalla caratteristica forma stondata al gomito. L’uso di questa protezione diminuì verso la fine del Seicento: essa divenne un accessorio decorativo, soprattutto da parte degli ufficiali rango elevato, come nel caso di questo cavaliere, un bayrakdar (portastendardo).  Come negli eserciti occidentali, anche presso i Turchi l’incarico di portare un’ insegna era considerato un privilegio, soprattutto se si trattava della principale fra le insegne ottomane. L’asta con la coda di cavallo, il tugh, serviva infatti a identificare il capo del contingente, e ad ognuno era destinato un diverso numero di insegne. I pascià erano contraddistinti da tre tugh, mentre uno spettava ai sancakbeg; anche l’eventuale presenza del sultano veniva resa visibile da sette insegne; cinque tugh segnalavano invece il gran visir.

 

Se dal punto di vista strategico e tattico gli ottomani finirono per soccombere in tutti i maggiori scontri  combattuti in campo aperto contro gli eserciti occidentali, in quella che nel Seicento era definita la “piccola guerra” dimostrarono al contrario un’abilità e una modernità straordinarie. Efficientissima nella perlustrazione e nel garantire un velo impenetrabile attorno alle direttrici di marcia dell’armata principale, la cavalleria turca fu strategicamente impiegata nel corso di tutto il secolo in azioni offensive in territorio nemico. Del resto il favore goduto in Occidente a partire dalla fine del XVII secolo dalle formazioni di cavalleria leggera, analoghe o simili a quelle degli ottomani per disciplina tattica, dimostrano, nell’epoca delle armi da fuoco, che i turchi seppero interpretare al massimo livello il nuovo ruolo assunto dal soldato a cavallo.

I turchi avevano equipaggiato integralmente con armi da fuoco la loro fanteria molto tempo prima che in Occidente, tuttavia ogni soldato si portava in battaglia almeno un paio di armi da taglio. La tattica di combattimento preferita dalla fanteria turca prevedeva infatti una serie di scariche di fucileria iniziali, cui seguiva un furibondo assalto all'arma bianca. Lo statuto dei giannizzeri contemplava anche un limite a queste cariche, stabilite a un massimo di tre; tuttavia questa norma non sempre fu rispettata e in molte occasioni - compresa la battaglia di Szent Gotthard - i giannizzeri effettuarono un numero di assalti maggiore.

Gli ausiliari tatari.
Tutte le maggiori campagne combattute dagli eserciti ottomani a partire dal XVI secolo videro la partecipazione di contingenti di cavalleria ausiliaria, fornita dagli stati tributari  dell’impero. Fra questi un posto di assoluta importanza, soprattutto per la loro forza numerica, spetta ai cavalieri inviati dallo Han dei tatari di Crimea. I discendenti dell’orda d’oro, stanziati alla fine del 1400 sulle rive settentrionali del Mar Nero, avevano fondato uno stato autonomo, trasformandosi progressivamente in sedentari. La saldezza dei loro legami con Istanbul conobbe vicende alterne ma, attratti dalle possibilità di arricchimento offerte dalla guerra e incentivati dal pagamento di forti somme, i capi tatari fornirono sempre i loro uomini agli eserciti del sultano. I comandanti ottomani li impiegarono spesso in azioni di avanguardia; inviandoli in profondità nelle retrovie avversarie, i tatari potevano provocare molti danni alle vie di comunicazione, ai magazzini e ai reparti isolati. I guerrieri si recavano in campagna con più di un cavallo a testa e questa mobilità li rendeva adatti a infastidire con rapide puntate e imboscate le unità nemiche, evitando però lo scontro diretto che, a causa della piccola taglia dei loro cavalli e per l’armamento spesso obsoleto, li avrebbe visti facilmente soccombere contro le più potenti cavallerie regolari. Giustamente uno dei loro più celebri avversari, il re di Polonia Jan Sobiesky, definiva questa tattica come quella dei cani da caccia che molestano una preda più grande di loro e, una volta circondata, attendono l’arrivo dei cacciatori. In guerra i tatari si dedicarono con spietata efficienza anche al commercio di schiavi, deportando in Asia migliaia di civili ungheresi, austriaci, boemi e moravi. In seguito alla grande incursione compiuta nella primavera del 1663, i brutali cavalieri dello han trascinarono in catene migliaia di prigionieri fino al confine con la Bosnia, dove furono però intercettati dagli ussari di Miklos Zriny i quali, dopo una breve ma cruenta lotta, riuscirono a liberare tutti gli ostaggi.

Szent Gotthard-Mogersdorf, 1 agosto 1664



Ordine di battaglia dell’esercito ottomano (ricostruzione da Montecuccoli, Hammer e Mantran)



comandante in capo: Köprülü Ahmed, gran visir

- corpo principale: Ismail, beglerbeg di Romelia, serasker
fanteria:  9.000 giannizzeri e cebeci
cavalleria: 11.000 sipahy ulùfely

300 cannoni (di cui un centinaio da campagna)



- corpo di Ali pascià di Temesvar
fanteria:  4.000 serhadkulu azab e segmen
cavalleria: 2.500 sipahy toprakly
1.500 serhadkulu beslü
4.000 ausiliari moldavi e valacchi

7.000 Tatari



- corpo di Hüseyn pascià di Buda
fanteria:  4.500 serhadkulu azab
6.000 serhadkulu bosniaci e albanesi
cavalleria: 5.000 sipahy toprakly



10/11.000 genieri ausiliari, conducenti e altri addetti al treno d’armata e dei rifornimenti.

 

Le fasi principali della battaglia

31 luglio: dopo una marcia parallela di due giorni lungo le sponde della Raab, l’armata ottomana e quella alleata si accampano nei pressi dei villaggi di Szent Gotthard e di Mogersdorf. Durante la notte l’artiglieria turca apre il fuoco contro gli Alleati.

1 agosto, ore 4.50: sul lato occidentale della grande ansa del fiume, attraverso un guado poco profondo, gli ottomani riescono a occupare un rilevante tratto di terreno a nord del fiume, facilitati anche dalla protezione offerta da un boschetto e da alcune case.





ore 6,30: dopo che le sentinelle hanno dato l’allarme, le truppe imperiali, quelle della Deutsche Allianz e della Reichsarmée si muovono in direzione sud per restringere il fronte e prendere contatto con i turchi. A destra, con l’ordine di mantenersi in riserva, il corpo francese respinge piccoli gruppi di cavalleria in ricognizione avvistati a sud di Mogersdorf.

 

ore 9.00: una serie di assalti diretti verso il centro dello schieramento alleato provoca la rotta della fanteria; dopo un ora di violenti combattimenti, la cavalleria imperiale riesce a ristabilire la compattezza del fronte.



ore 12.00: i progressi degli assalti ottomani si fanno tuttavia evidenti: il villaggio di Mogersdorf, lasciato sguarnito dal corpo francese accorso al centro, cade in mano ai turchi. La fanteria ottomana inizia a trincerarsi, mentre non cessa l’afflusso di truppe attraverso il guado sulla Raab. Montecuccoli convoca i suoi comandanti per un consiglio di guerra.

ore 13.00: nonostante il parere contrario del comandante francese Coligny, Montecuccoli ordina un assalto generale.

 

ore 14.00: l’avanzata degli Alleati restringe sempre più lo spazio di manovra degli Ottomani che si accalcano in tutte le direzioni, finché la pressione crescente provoca i primi cedimenti nella loro linea di difesa.

Ore 14.30: il gran visir Ahmed Köprülü ordina alle sue truppe di ritirarsi e di ripassare la Raab; restano sul campo 10.000 morti e feriti ottomani e 2.000 degli imperiali e  loro alleati.

Fine della quarta e ultima parte

Le Mie Tre Vite

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